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quanto tempo che non ti scrivo. non so perché mi sono
ridotto a farlo solo adesso. forse perché per lungo tempo non ho sentito
la necessità di raccontarmi intimamente a nessuno, perché io parto
sempre da questa idea che nessuna delle persone che mi circonda mi
capisca sul serio. l’idea che nessuna sappia di cosa parlo.
poi sono tornato. finalmente. con un milione di ricordi più o meno
recenti in una valigia con sopra il mio nome, una valigia che tutti
conoscono e mai nessuno apre.
sono venuto a casa tua. il tuo sorriso è rimbombato ovunque, contenuto
dalle imponenti volte a stella. ho lasciato cadere la borsa per
abbracciarti. quando tutti se ne sono andati io sono rimasto. hai messo
della musica, e io distrattamente conquistato la ascoltavo, e prendevo
nota perché sapevo che poi mi sarebbe servita, che valeva la pena
ricordarla.
e si faceva tardi ma non era mai ora di andare via, ed avevamo sonno ma
all’improvviso io non lo sentivo più un gran che, e avevo voglia e
bisogno di raccontarti un sacco di cose di me con l’entusiasmo che mi
contraddistingue ma all’improvviso tutto mi è sembrato così poco
importante, perché qualunque cosa avessi detto in quel momento mi
sarebbe sembrato di scarabocchiare su una parete che era perfetta così:
bianca.
all’improvviso le parole sono diventate solo un suono, un sottofondo,
perché quello che realmente riempiva la stanza era la Compagnia. il
nostro modo di starci accanto, finalmente, fisicamente, senza neanche
toccarci, tu su un lato del divano e io sull’altro ma nella stessa
stanza. e più vicini che mai.
l’aereo fa una virata brusca che mi scuote i pensieri, abbasso gli
occhi e vedo mille luci illuminare la terra velenosa. ‘the big fight’,
stars. quella canzone che all’improvviso cambia, si riempie di bassi, e
da lounge jazz diventa r’n'b. ti si è accesa una lucina negli occhi
quando mi hai fatto sentire il modo in cui si trasforma, ed io incantato
mi sono chiesto se ti abbiano sempre entusiasmato le metamorfosi, se
hai letto Ovidio e Kafka, se preferisci Marcella Bella o Rolling stones
(e la risposta non è scontata), se hai mai preso in mano una rana, se da
bambina avevi anche tu una di quelle statuette che cambiano colore con
il tempo e se giocavi con il didò. e poi mi sono chiesto se per caso non
siamo cambiati anche noi.
la sto ascoltando ancora. sto ascoltando la musica che metti la domenica
sera. non so nemmeno se la scegli tu, ma è a te che mi fa pensare,
perché è musica dalla superficie liscia con sotto un uragano. musica
intima, balsamica, fastidiosa come una carezza. ho un nodo alla gola
mentre penso che non so quando sarà la prossima volta che ti rivedrò, e
che nel frattempo mi mancherai. ma non importa. perché ci sono persone
che anche se le rivedi dopo mesi sembra sempre che siano passati cinque
minuti. e tu sei una di quelle. tu sei sempre stato una di quelle.
perché tu sai di cosa parlo.
e lo hai sempre saputo.
e adesso che so che è a te che posso parlare di me, apro il computer, inizio a scrivere e di cosa ti parlo?
di te.
curioso, non trovi? ma in fondo, le cose davvero importanti sono le persone con cui possiamo parlarne.
p.s.:
questo documento è stato scritto due volte. la prima non è stato
salvato. la seconda è stato riscritto a memoria, tale e quale, perché
avevo bisogno che sapessi. ora sul desktop c’è un file che ha il tuo
nome e cognome, e sullo sfondo c’è la mia foto, e adesso io prendo
l’icona e la trascino accanto al cuore.
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