martedì 25 giugno 2013



‘a che piano?’
‘zero, grazie.’
‘ahhh per lo zero bisogna aspettare. lei ha pazienza?’
‘sì, parecchia.’

‘e non le capita mai di perdere le staffe?’

le parole inciampano nella dentiera ingiallita di questo vecchio alto e ossuto che in questo ascensore di un metro per uno dall’alto del suo completo grigio mi parla come fossi suo nipote. 
è la prima volta che lo vedo in vita mia.
se l’ascensore avesse una finestra guarderebbe via Manara. 
il serpente metallico delle macchine parcheggiate, le strisce pedonali sbiadite, le copisterie e le librerie giuridiche, il bar dove sto per andare a bere un caffè.

in aula l’arringa va avanti, e mi spiace perdermene un pezzo, ma ho un’ora di sonno e sono qui dalle nove. ho bisogno di tenermi sveglio. (in generale.)
‘raramente. mi capita raramente di perdere le staffe.’
se lo specchio alla mia sinistra potesse parlare, cosa mi direbbe?
mentre mi parla, il vecchio schiaccia il numero quattro. siamo al terzo piano. e lui è salito dopo di me. non è abbastanza galante da lasciare che l’ascensore accompagni me per prima. capisco immediatamente che anche lui è un avvocato, che lo fa da tanto, e che lo sa fare bene, perchè la mia attenzione si è focalizzata sulla sua dialettica, facendomi notare solo dopo che l’ascensore, invece di scendere, sale.
le consonanti fricative son troppo spesse per passargli attraverso gli incisivi, così s’intoppano, si deformano, si stringono, e ne escono snelle, ma strisciando sulle pareti dei denti. graffiandole con un sibilo. così sembrano più lunghe.
oltretutto, come suol si dire, c’ha la gorgia: aspira le c.
‘io son di razza toscana. di che razza è lei?’
‘metà pugliese e metà islandese.’
‘pugliesi grande cuore, islandesi intelligenza di ghiaccio.’
le porte si aprono. piano quarto.
‘è un bell’ossimoro.’
sorrido.
‘buona giornata.’
le porte si chiudono. schiaccio lo zero.
‘anche a te.’




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