domenica 30 giugno 2013



quando penso alla Spagna, 
quando ci penso davvero, 
sento il bisogno di accendermi una sigaretta, perchè m’innervosisco. 
ogni luogo ha il suo modo di mancarci. a me la Spagna manca come un’adolescenza trascorsa in un collegio. e non dipende da lei.

qualche mattina fa mi sono svegliato e mentre mi vestivo ho notato che la luce che c’era nella mia stanza era esattamente identica a quella che mi son goduto una mattina di marzo di quattro anni fa. all’alba. sul ponte di una nave. attraversando il Mediterraneo. a destra, la Corsica. a sinistra, la Sardegna. 
oltre la prua, all’orizzonte, Barcellona. e un meraviglioso accenno di sole. ascoltavo i Negramaro, ‘Neanche il mare’. ho iniziato a canticchiarla. e m’è venuta nostalgia della prima volta che ci sono andato, in Spagna, che era quella mattina lì, e ancora di spagnolo non sapevo niente, e pensavo che ci sarei tornato in vacanza un giorno o l’altro, ma che sarei finito a viverci, dopo un paio d’anni, per quasi un anno intero, non l’avrei mai detto.

Madrid e i suoi stradoni, i suoi vicoli vecchi ma arzilli, le sue piazze ognuna con un monumento a qualcheduno di ancora vivo, la sua gente che per me è sempre rimasta un mistero.

e intanto le coincidenze continuano a scandire il tempo che mi aspetta.

prima della Spagna non avrei saputo dare una definizione di ‘occasione’. adesso temo di saperla riconoscere dal suo orizzonte.





sabato 29 giugno 2013




‘now, thinking back, on the course of my passion, i was like one blind, unafraid of the dark.’



parlare con te significa ricordarmi che sono solo. 

significa avere la sensazione fortissima di essermi dimenticato quand’è l’ultima volta che qualcuno mi ha fatto una carezza. 
una di quelle carezze semplici semplici, come la parola ‘carezza’, che scivolano sulla pelle come olio sul marmo e ti sciolgono i nervi come mille massaggi.

 che ti tengono in pugno, 
perchè ti ci arrendi, e sai di poterlo fare, 
chè sotto quelle mani non ti capiterà niente.

voglio stare bene. 
voglio pulizia, 
educazione, 
rispetto. 
cose piccole. 
dirsi ‘buonanotte’.
 bacio sul naso. 
parlarsi sottovoce. 
dire quello che mi va di fare. 
dire quello che non mi va di fare. 
un paio di braccia in cui arrendersi.
 dormire insieme, 
non scopiamo, ti prego, 
se ci vien voglia facciamo l’amore altrimenti dormiamo insieme, 
così, naso a naso, chi se ne frega del sesso, 
il sesso mi annoia, il sesso non serve.

serve starsi accanto. 
nella maniera più indolore possibile.

non farmi del male. 
ti prego. 
non. farmi. del. male.




venerdì 28 giugno 2013



è che finchè vivi qui al profumo di fiori nell’aria non ci fai caso.



giovedì 27 giugno 2013



i tuoi occhi conficcati nel mio petto,
senza nessuna bibbia d’esperienza
in tasca, accanto al cuore, nel giacchetto,
a opporre disperata resistenza.



mercoledì 26 giugno 2013



‘potrei scrivere i versi più tristi stanotte’, 
scriveva Neruda. e io? 
cosa potrei scrivere stanotte? 
potrei scrivere la tua risata, 
il mio profumo, 
quel nostro lunghissimo sguardo? 
potrei scrivere quello che sento? 
non potrei. non esiste linguaggio. 
quando l’anima è satura di parole, le pronuncia tacendo.

sono diventato così bravo ad amare 
che ho disimparato come ci si innamora. 

so come starti accanto, come prendermi cura di te, come sorridere quando ti scusi e arrabbiarmi quando non rispondi, come farti un caffè al mattino, cantarti le canzoni alla sera, e bruciare, bruciare insieme. 
ma non so incendiare la miccia. 
dare avvio ad un equilibrio. ce ne stiamo così, a penzolare nel vuoto,
 e non so darmi la spinta per avvicinarmi, toccarti e farti oscillare con me. soltanto, 
ti guardo. da lontano.

è sempre stato così, tutta la mia vita. una volta dentro le cose, ci stavo da dio. ma all’ingresso, a tutti gli ingressi, ho sempre esitato prima di entrare, come se mi sentissi costantemente di troppo, come se in fondo sapessi di esserlo.

e così non sono in grado di varcare la soglia del tuo campo visivo,
 mettermi di fronte a te e parlarti chiaro. non sono neanche in grado di cercarti. 
e anche domani non ti parlerò. 
e preferirò restare a guardarti mentre pensi a tutt’altro e neppure mi vedi.
 ma tu saprai, perché devi sapere, che lo faccio perché quando ti guardo vedo tutto quanto scritto, e mi cogli impreparato ma per te imparerò ad essere pronto, e tutto quello che ho da dirti non trova via d’uscita perché non ha un mezzo giusto nel quale propagarsi, ché l’aria è troppo leggera per sentimenti così pesanti. 
ed io non voglio che si schiantino al suolo, che si infrangano. ché i sentimenti son fragili.
 voglio tenermeli tutti, farli vibrare al suono delle tue dita, e che mi tengano sveglio da questo anestetico mondo del quale, credimi, non me ne frega veramente un cazzo. mi frega soltanto del modo in cui potresti dovresti (vorresti?) stringermi e non lasciarmi andare più perchè, credimi, uno che ti ami con una simile dolcissima deficienza non lo trovi. 

il mantra è il solito: stai calmo. ma non ci riesco. non ci riesco.
ho un’idea di te che non ha pietà di me.
ho te, dentro, dappertutto
 
 
 

martedì 25 giugno 2013



‘a che piano?’
‘zero, grazie.’
‘ahhh per lo zero bisogna aspettare. lei ha pazienza?’
‘sì, parecchia.’

‘e non le capita mai di perdere le staffe?’

le parole inciampano nella dentiera ingiallita di questo vecchio alto e ossuto che in questo ascensore di un metro per uno dall’alto del suo completo grigio mi parla come fossi suo nipote. 
è la prima volta che lo vedo in vita mia.
se l’ascensore avesse una finestra guarderebbe via Manara. 
il serpente metallico delle macchine parcheggiate, le strisce pedonali sbiadite, le copisterie e le librerie giuridiche, il bar dove sto per andare a bere un caffè.

in aula l’arringa va avanti, e mi spiace perdermene un pezzo, ma ho un’ora di sonno e sono qui dalle nove. ho bisogno di tenermi sveglio. (in generale.)
‘raramente. mi capita raramente di perdere le staffe.’
se lo specchio alla mia sinistra potesse parlare, cosa mi direbbe?
mentre mi parla, il vecchio schiaccia il numero quattro. siamo al terzo piano. e lui è salito dopo di me. non è abbastanza galante da lasciare che l’ascensore accompagni me per prima. capisco immediatamente che anche lui è un avvocato, che lo fa da tanto, e che lo sa fare bene, perchè la mia attenzione si è focalizzata sulla sua dialettica, facendomi notare solo dopo che l’ascensore, invece di scendere, sale.
le consonanti fricative son troppo spesse per passargli attraverso gli incisivi, così s’intoppano, si deformano, si stringono, e ne escono snelle, ma strisciando sulle pareti dei denti. graffiandole con un sibilo. così sembrano più lunghe.
oltretutto, come suol si dire, c’ha la gorgia: aspira le c.
‘io son di razza toscana. di che razza è lei?’
‘metà pugliese e metà islandese.’
‘pugliesi grande cuore, islandesi intelligenza di ghiaccio.’
le porte si aprono. piano quarto.
‘è un bell’ossimoro.’
sorrido.
‘buona giornata.’
le porte si chiudono. schiaccio lo zero.
‘anche a te.’




lunedì 24 giugno 2013



poi c’è una cosa di cui io ho proprio paura, 
e quella cosa sono gli stadi intermedi. 

nè dentro, nè fuori. 
nè tutto, nè niente. 
nè bianco, nè nero. 

il grigiore dell’indeterminatezza. 
l’indeterminatezza del grigiore.

non è questione di non sapere come va a finire. 
è questione di non sapere come fare a farla finire. 

in che direzione spostarsi, 
e con che forza, 
con quale coraggio, 
con quale presunzione di sapere che ci si sta muovendo nel verso giusto. 


eppure si deve. 
prima o poi,
 ci si deve spostare.

 perchè prima o poi, 
prima o poi, 
dovrà pur esserci un dentro o un fuori, 
un tutto o un niente, 
un bianco o un nero. 
una stabilità provvisoria. 

qualcosa che resti.
resti?

chiudi bene la porta.
l’amore è meschino, 
e ti coglie alle spalle




domenica 23 giugno 2013





Sono il tuo poeta e scendo le acque erratiche e limpide
di una venerazione-fiume, senza temere le rapide.
Son sul flusso che mi ti porta e sto sdraiato a naso in su:
quando alla baia la barca è giunta a braccia aperte ci sei tu. 


  amami quanto vuoi:
scintillerò di rime in fondo agli occhi tuoi. , tu vieni dentro ai miei:
quel che troverai è quello che tu sei per me in ogni istante.

"Un mio gioco di sillabe ti illuse" il gran poeta fissò,
ma non fra le deluse con "l'onesto rifiuto" ti metterò. 


Passeremo minuti ed ore nell'ardore più complice.
Amorevole amore illuso: sillaberemo le coccole. 


  amami quanto vuoi:
scintillerò di rime in fondo agli occhi tuoi. 


 tu vieni dentro ai miei:
quel che troverai è quello che tu sei per me in ogni istante.

Non mi chiedere amore che non credo sia tempo di guerra per me.
Se ho bisogno d'amore non vuol dire che amo l'idea di te.


 amami quanto vuoi:
scintillerò di rime in fondo agli occhi tuoi. 


 tu vieni dentro ai miei: 
quel che troverai è quello che tu sei....

o quel che non sei più.


 

sabato 22 giugno 2013



"la lampada ad olio soffiava una luce inusuale sulle pareti. una luce liquida, soffusa, sfumata, smerigliata, perché il vetro era vecchio, consumato dal tempo e dall’usura di chissà quante notti estranee. l’avevano comprata insieme, al mercatino dei navigli, quello dell’ultima domenica del mese. tutt’e due l’avevano guardata e insieme l’avevano scelta, o forse era stata lei a scegliere loro.
‘vuoi un altro po’ di vino?’
Olivia esalò una boccata di fumo, pensando che il fumo è uno di quegli insani vizi che quando non hai ci giri attorno per entrarci e quando ci sei dentro fai di tutto per uscirne, un po’ come fanno i topi con le trappole.
‘no, grazie. sto bene così.’
‘sei pensierosa, stasera. qualcosa non va?’
un’altra boccata.
‘il mondo non va.’
una farfalla notturna che pareva di carta si adagiò sulla cresta del vetro, la testa verso la luce, affacciata come ne cercasse il fondo.
Olivia spense pigramente la cicca nel posacenere bianco.
‘ti vergogni di me.’
non rispose.
‘sì, ti vergogni di me. lo vedo come guardi in basso quando la tua famiglia ti chiede di noi, quando mi presenti ai tuoi amici, quando guardi le altre coppie… tu ti vergogni di me.’
‘io sono fiera di te.’
la lingua di Einstein assisteva alla scena dall’alto del suo grigiore, come a burlarsi dei loro discorsi.
‘e allora qual è il problema?’
Olivia raccolse le gambe, le circondò con le braccia, intrecciò le dita. sospirò. abbastanza forte. a lungo. come per spolverare le parole che stava per dire.
‘il problema è che oggi sono uscita dal lavoro, e stavo tornando a casa, e pensavo a cosa ti sarebbe andato per cena, e pensavo di farti le penne all’arrabbiata perché so che ti piacciono tanto, e che dopo le giornate pesanti come quella che hai avuto oggi ti fanno riprendere, e che tutte queste cose le so perché ormai sono quasi tre anni che viviamo insieme, e mentre ci pensavo ho visto due ragazzi, due maschi voglio dire, sulle scale della metro, che si davano un bacio sulle labbra, e una signora di quelle con la colf polacca la borsa in pelle e la fede sempre al dito li ha guardati con un’aria che non era schifata ma non era tranquilla, non saprei dire, era a disagio, non riconosceva come normale quello che stava vedendo, e io pensavo che porca puttana l’amore è l’unica cosa normale che ci sia a questo mondo, l’unica cosa libera che ci sia a questo mondo, e finchè ci sarà gente così bigotta da continuare ad imprigionarlo in un pregiudizio questo qua non sarà un bel mondo. non potrà mai essere un bel mondo.
ma ti amo. io ti amo.’
le prese la mano. si sorrisero da un angolo all’altro del sofà.
nel silenzio del salone, la farfalla compiva la sua rivoluzione attorno alla fiamma, vibrando dentro la lampada.
‘perché non la cacciamo via?’
‘perché dovremmo?’
‘ma è enorme!’
‘non ci dà fastidio. e poi porta fortuna. dicono.’
‘allora diamole un nome.’
‘Ele.’
‘come Eleonora?’
‘no. come Eleuteria. in greco significa libertà.’
‘Eleuteria. mi piace.’ sorrise.
‘andiamo a letto.’
‘andiamo a letto.’
Olivia soffiò sulla lampada ad olio. la farfalla saltò via, fece una piroetta con poca grazia, ronzò un poco. poi si posò sullo stoppino nero. e là rimase.
insieme risvoltarono il lenzuolo – faceva caldo ormai per le coperte – e si abbandonarono alla gravità. la notte era chiara, tiepida, impassibile. ed intima. come sempre.
lo schiocco di un bacio risuonò sulla sua fronte. ‘buonanotte Olivia.’
‘buonanotte Maria."



venerdì 21 giugno 2013



raccoglimi, ti prego, da questo asfalto. tra me e questa strada deserta infila le tue braccia. poi sollevami. indossami. portami non importa dove. posami solo dove mi saprai al sicuro. e restami accanto. prendi tutte le convinzioni, le convenzioni, le parole. le parole. imballale, nascondile. parlami con le mani, sfiorami e schiaffeggiami e abbracciami e solleticami. poi, lentamente, percorrimi. sii curiosa del mio corpo, scoprilo. inciampa in ognuna delle sue ferite, leccale con la tua lingua alcolica, guariscile. una ad una. salva con la punta delle dita le lacrime dal precipizio del mio mento. baciami la fronte. baciami il naso in punta. baciami le palpebre chiuse impegnate a immaginare la migliore delle mie idee di te. scopri quanto sono corti i miei capelli , e poi indaga sulla loro ombra. guardami dormire, anche se sarò brutto, e ridi pure della mia goffaggine, tanto non lo scoprirò mai. scruta il modo in cui mi mordo le labbra quando confeziono un sogno di te. scrivi di me, per me, con me, a quattro mani. una parola io e una tu. creiamo una storia. una qualsiasi. fammi tornare a credere che amare non è un verbo a senso unico. facciamo l’amore, come viene viene.
svegliami. scuotimi, urlami in faccia. mordimi e poi ‘ahia’ e poi ridi e poi baciami nello stesso punto. guardami. guardami tutto. guardami nudo, vestito, mentre mi lavo, mentre mangio la cena. vieni alle mie spalle e abbracciami. mentre lavo i piatti. vieni alle mie spalle e baciami. affondami dentro. affogami dentro. toglimi il fiato, chè lo so che lo sai fare. impossessati di me. sii dipendente e dipendi da me. sazia le mie dita con la tua pelle, acceca il mio sguardo con il tuo sguardo, semplicemente, senza aggiungere neanche un respiro. scordati i tuoi ieri. prenditi i miei domani. lascia che io sia la tua funzione primaria, e sii la mia necessità. lasciati guardare. lasciati amare. fidati di me. una volta. una sola. basterà. se pensi che io valga anche un solo tentativo allora fallo. datti un’altra chance. fai di me la tua scommessa vinta.
facciamo l’amore. come viene viene.


giovedì 20 giugno 2013




supino sul letto 
soccombo ad un cuscino cui dò la tua essenza.

sono tossico di te,
 di tutto ciò che ti riguarda, 
di tutto ciò che sei 
e sarai 

e se mi senti scusami, 
stavolta sono serio.

passerà?

c’è una stanza buia, 
una persiana a mezz’asta, 
una finestra aperta 
e una tenda bianca che sventola pigra. 

due comodini, 
un solo lume. spento.

c’è un grande letto in mezzo. 
ci sono lenzuola disfatte,
 violentate. 

c’è una donna, una donna stanca, esausta, sfinita, 
una donna forte e la sua forza dispersa, 
seminata tra le pieghe bianche e grigie del cotone.

e c’è un uomo, un vero uomo, 
che stringe le sue gambe come fossero speranze. 

e piange. piange.



mercoledì 19 giugno 2013



stanotte non funziona un cazzo. 
internet, 
la tv, 
la lampada,
 il telefono,

 il cervello.
 la mia vita. non funziona. da un po’.

si dice che la propria casa sia lo specchio di ciò che siamo.
vero. 
questa casa è lo specchio di come sono adesso. 

pulita, 
ordinata,
 apparentemente nuova, 
calma. 

eppure non funziono.


 e i difetti son sempre gli stessi.


martedì 18 giugno 2013




buio. lenzuola. mani. capelli. me li accarezzi piano, in superficie, senza profanarli con le dita. li sposto lentamente, e tu me li raccogli. poi li pettini. ‘hai dei nodi’, dici.
ti guardo il naso.
‘prima o poi li scioglierò.’
alla fermata del 24 la gente sbadiglia, sul display campeggia la scritta ’24 – 6 MIN’. accanto a me una donna dalle scarpe oscene. e una Signora che parla al telefono con fare concitato. due battute, poi capisco: sta parlando con la figlia. la sta rassicurando. è in ritardo, ma sta arrivando. chiude. mi guarda. sorride.
‘ho una figlia esemplare’, sospira. ‘anche lei è così con la sua mamma?’. sorrido.
‘la mia mamma è lontana…’
‘ah beh. devo andarmene in Australia, io. a far cosa, non lo so.’
‘vacanza, Signora. vacanza.’
saliamo sul tram. vedo i posti vuoti in testa, corro a prenderli. incrocio un mio conoscente. un ciao, due parole di circostanza, poi lui va in fondo. la Signora sopraggiunge. la aspettavo.
‘vuole venire a sedersi qui?’
‘volentieri! … ah… mio marito diceva sempre: non correre tu, lascia che siano gli altri!’
‘e mi sa che c’ha ragione, suo marito.’
‘è morto sette anni fa.’ guarda dritto, cosa non lo sa. ‘vuole che faccia sedere qui il suo amico?’
‘ma s’immagini… prego, si segga.’
‘meglio così: non mi piace per lei.’
non posso fare a meno di ridere sotto i baffi.
‘almeno è eterosessuale, Signora. e non ne son rimasti tanti.’
‘non mi dica che è gay anche quel gran fusto di George Clooney…’
‘temo sia un po’ troppo maturo per me.’
‘oh, sì. troppo vecchio per lei. e troppo giovane per me.’ ridiamo. ‘ma a me di attori non ne son mica piaciuti tanti, sa. il primo che mi è piaciuto è stato Gregory Peck, perché era un Signore.’
‘Vacanze romane’, lo diciamo insieme, in un unico sospiro. ‘quando lui non diceva niente alla Hepburn… era un Signore. poi ho amato Paul Newman… e infine adesso mi piace Clooney. tre, mi sembra un numero giusto.
di uomini veri, invece, ne ho avuto uno solo. mio marito. che è mancato sette anni fa.’
‘mi dispiace.’
‘l’ho incontrato a quindici anni, l’ho sposato poco dopo e l’anno prossimo avremmo dovuto celebrare i cinquant’anni di matrimonio. ma era un Signore, lui, sa. era un Manzoni, un discendente della sua famiglia, e diceva che ero io quella nobile dei due, e lo ero veramente, perché ho due cognomi e son contessa sul serio. ma la verità è che il Conte è sempre stato lui. un gentiluomo.’
nel frattempo la guardo. ha un’età avanzata, ma la trovo molto bella. ha tante collane marroni fatte di legno, un paio di orecchini splendidi, truccata poco ma bene, le labbra definite, le parole definite. sorrido sognante.
‘condividevamo tutto. uscivamo tanto. discutevamo spesso. una sera siamo andati al cinema in duomo e abbiamo fatto tutta la strada del ritorno fino a san gottardo, dove abitavo io, litigando, discutendo del film. Hiroshima non amour.
litigavamo, litigavamo sempre. è stato un matrimonio meraviglioso.’
‘ha dei figli?’
‘due, ormai grandi, sposati…ho anche due nipoti. i matrimoni vanno bene, grazie al cielo. uno si dividono i soldi, l’altro parlano poco, ma finchè son contenti loro…
io e mio marito non dividevamo niente. condividevamo tutto, e parlavamo moltissimo. a cena da tavola non ci si alzava più.’
sospiro. guardo fuori. ‘altri tempi.’
‘ah, la mia fermata… devo salutarla.’
‘è stato un piacere.’
‘reciproco.’ sorride. mi fissa, strizza un poco gli occhi, sporge il viso in avanti e mi sussurra: ‘auguri’. riesco a risponderle ‘grazie’, ‘altrettanto’ no perché è già scesa, lasciandosi alle spalle l’amarezza dei tempi che cambiano, portando altrove il fascino del perduto.
la ragione per la quale mi si annodano i capelli è perché cercano, anche loro, di trattenere il tuo odore, quello che mi piace tanto, il tuo odore morbido e forse non pulito ma senza dubbio puro, di impugnarlo e imprigionarlo in una gabbia di crine, quando te ne vai, quando ti mando via, quando ti dico che non ti voglio più vedere e dopo mezz’ora ‘a stasera’, quando sembra la fine e invece è solo l’ennesimo inizio. fili tenuti insieme dalle parole che non dico, che prima o poi da questa testa dovrebbero uscire e prendere il volo verso i tuoi occhi selvaggi e invece rimangono qui a metà strada, impigliate nella paura di perderti con la quale ti baratto.


_stretti pensieri e considerazioni 
di un'anima comlicatissimamente bellisisma_



lunedì 17 giugno 2013



acqua. schiuma. la spugna gialla andava avanti e indietro sulla ceramica bianca, come una superstite.
sopra la spugna c’era un guanto, nel guanto una mano, unghie rosse contro gomma bianca. sopra la mano una fronte poco sudata, scoperta. Benedetta si era svegliata abbastanza di buonumore, quella mattina, per decidere che, prima di ogni altra cosa, bisognava pulire casa. si era trattenuta a letto una decina di minuti, a guardare il sole proiettato sul muro, e poi aveva deciso. pulire. prima di tutto.
si era alzata dal letto, si era stropicciata gli occhi, con una mano aveva scosso i capelli chiari come a svegliare i pensieri cupi che c’erano sotto. era bella, lei. peccava di superbia, alle volte, questo è vero, ma in fondo poteva permetterselo. era bella. sul serio.
‘già’, pensava guardando il riflesso della bocca sul tappo del bidet. ‘alla fin fine non sono poi così male. e alla fin fine non è poi così male nemmeno la mia vita. voglio dire, è una vita normale. il lavoro, la casa, le amiche, i tipi che mi faccio ogni tanto, i regali che mi fanno ogni tanto, quelle solitudini di divano e film e pizza a domicilio, e la città là fuori. e i suoi eventi. i tacchi, i lustrini, i rossetti sgargianti. a me questa vita piace.’
sorrideva passando la spugna sul bordo del cesso.
‘a me questa vita piace. anche se so che mi stancherà. anzi, un pochino mi ha già stancata. in fondo a che serve tutto questo? uscire, arrivare, ciao ciao come stai io bene anche io cosa fai nel weekend, tutti i santi weekend, ogni weekend. a cosa serve? in fondo a me basterebbe una persona che divida il divano, il film e la pizza con me. tutto il resto è bello, ma stanca.’
spostò i capelli dalla fronte col dorso dell’avambraccio.
‘stanca. sono stanca. o lo sarò molto presto. non potrei tollerare di vivere tutta una vita così. è lunga, la vita… quasi quasi, mi ammazzo. sì, mi ammazzo. morire suicida. tutta la città ne parlerà. tutti mi ricorderanno. non avranno più nessuno da girarsi a guardare. e mi rimpiangeranno.’
strizzò la spugna.
‘a 27 anni. come le rockstar. le leggende che ci girano attorno.’
aprì la porta dello sgabuzzino.
‘mi lancerò dal piano più alto del palazzo. l’ultimo. in tutti i sensi.’
respirò a fondo.
‘voglio morire come muoiono le foglie. volando.’
impugnò l’aspirapolvere.
‘sì, farò così. mi ammazzerò’
e inserì la spina.
una scossa le percorse il corpo, dalla mano, all’avambraccio, alle spalle, al seno, al cuore, al viso disteso, agli occhi spalancati, alla punta dei lunghi capelli. duecentotrenta volt in libera uscita., in quel corpo prigioniero di pensieri troppo liberi. un fremito leggero la attraversò dappertutto. poi evaporò, lasciandola in balia dell’aria. un secondo fotografata in mezzo alla stanza, e quello successivo abbandonata alla gravità.
ora giaceva sul pavimento, come una boccetta di smalto rovesciata su un lato. non sanguinava, ma perdeva del liquido. dal naso, dalla bocca, dall’ano, dalla gelida punta degli arti, anche, forse. nell’aria un odore di carne bruciata. il gatto la venne a leccare.
non lo sentiva, Benedetta, non sentiva più niente. era un corpo vuoto. non ragionava più. ma se avesse potuto ragionare, gente, se avesse potuto, avrebbe ragionato del pericolo. di quanto sarebbe stato più giusto continuare a sopportare quella vita inutile, fatta di cose e persone inutili, senza mai lamentarsi, di come la morte aveva senso solo se autoinflitta, di come invece la stava cogliendo a dispetto, e di quanto bisogna stare attenti a prendersi gioco della vita, ché se si offende sa essere tremenda. e si sa vendicare.
infatti.
quella di volersi uccidere è una folgorazione a cui è meglio non sopravvivere.
e acqua. e schiuma. e la spugna gialla se ne stava lì, sulla ceramica bianca. come una superstite.



domenica 16 giugno 2013



Milano vuota ha qualcosa di onirico. sarà che la gente sta ancora sognando. non capita spesso che la gente qui sogni, perché non ne ha il tempo. e noi conosciamo bene la bellezza delle cose rare.
cammino tra i palazzi distratto dalla surrealtà della domenica mattina. sono le undici. sto andando all'aereoporto. finalmente ritornerò a casa.
mi sorprendo a pensarti. non capita di rado, ma quando capita non me ne accorgo. non penso che ti penso. inciampo nell’idea di averti in mente, e resto lì, caduto sotto i colpi del pensiero. mi guardo dentro e mi dico ‘ti rendi conto?’ e continuo a mettere un piede dietro l’altro mentre la mia anima resta lì, distesa sull’asfalto.

volo
penso
attendo
ritorno

 
arrivo al cancello di casa e al momento di entrare neanche infilo la chiave nella toppa. la serratura è difettosa. so che anche stavolta non girerà. infilo la mano tra le sbarre e per aprirlo uso l’altra, quella dietro. l’alternativa.
all’improvviso penso che la mia vita è stata tutta così, tutta un’alternativa, tutta una via parallela. è stata tutta un’ammalarsi lasciando la finestra aperta aspettando che qualcuno tornasse. e quel qualcuno è andato e ritornato mille volte, senza capire che bastava restare una sola.
mi rendo conto di essere dentro un ennesimo piano b, dentro un vortice di alternative che non ti riguardano se non per il fatto che guardano un paio d’occhi fingendoli i tuoi, stringono un paio di mani fingendole le tue, dicono parole che vorrei tu potessi udire. io che sono così teatrale mi sento condannato alla finzione, come se la gente non fosse altro che un pubblico da convincere, da incantare con un personaggio, da far applaudire di fronte a una bella performance finchè non cala il sipario e ognuno a casa sua e niente fila fuori ai camerini
.
bisogna amare, 
amare sempre, 
senza ragionare troppo sulla propria missione, perché è questo che sto facendo io adesso: sto ragionando. e ragionare spinge a classificare. ‘overthinking will ruin you. ruin the situation, turn things around, make you worry, and just make things worse than they actually are. so please, V, don’t do it.’ odio, detesto, ho sempre detestato, le categorie e l’ordine imposto in generale, sebbene lo riconosca come necessario. e mi sono disabituato, però così si rischia di fare confusione, e nella confusione ci si sente persi, ed alle volte mi ci sento anch’io. per cui potresti dire al tuo corpo di stringermi ogni tanto? prometto che confonderò anche questo.

un vecchio proverbio cinese dice: ‘adesso che il mio granaio è stato distrutto posso vedere la luna.’ abbiamo sempre bisogno che qualcosa crolli per renderci conto di ciò che c’è attorno? abbiamo sempre bisogno che qualcosa sparisca dalla nostra visuale per renderci conto che non era altro che un ostacolo? 


mah....



 

sabato 15 giugno 2013





c’è una cosa che non sono mai stato capace di fare, 
e questa cosa è chiedere. 

ho sempre aspettato che le cose mi venissero offerte, 
o me le sono prese senza chiedere, 
incazzandomi, alle volte,
 perchè le persone non son brave a leggere nella mente delle altre,
 e nella mia è raro che ci si legga.

ma non le ho mai chieste, 
o se l’ho fatto, non l’ho mai saputo fare.

questa sera, all’improvviso, dal nulla, una cosa te l’ho chiesta. 
‘vorrei che guardassimo un film’.

‘come no!’, mi hai detto. e mi hai sorriso.
 
e finalmente ti ho sorriso anch’io.



venerdì 14 giugno 2013



la morte dei sogni non ha mai lasciato buoni eredi. specialmente se quei sogni muoiono ammazzati. è una legge universale che credo funzioni un po’ in ogni parte del mondo, come la forza di gravità. dal momento in cui ammazzi un sogno, accidentalmente o dolosamente, le cose possono andarti bene, forse meglio, per due settimane, tre mesi, un anno o anche una vita intera. arriverà un momento in cui quei sogni verranno lì a bussarti e a chiederti come va senza di loro, e ci sarà un cazzo di motivo, che ovviamente tu non saprai mai, per il quale non sarai mai sicuro di quello che rispondi, un motivo per il quale sai che qualunque cosa rispondi potresti pentirtene, perchè qualunque cosa dirai la dirai senza il tuo sogno in mano, e senza il tuo sogno in mano non sarai mai una persona sicura. un assassino non è mai una persona sicura.
ma comunque.
tornare qui mi fa prendere aria, ma mi fa schiantare contro i miei ‘forse’. mi costringe a scartarli uno ad uno, ad annusarli immaginando il loro sapore, e a non poterli assaggiare col dubbio che avrebbero potuto essere più velenosi di quello che ho scelto.
e allora oggi, siccome era già una giornata impegnativa dal punto di vista del ‘vediamo quanto male posso farmi strisciando sul ciglio di ciò che non sono (più)’, ed era un gioco a tratti persino divertente perchè serviva fantasia oltre ad una massiccia dose di autocontrollo, sono andato nell’ultimo dei posti in cui mi sarei mai sognato di andare se avessi scelto di tentare di avere una serata tranquilla. sono entrato senza neanche fare il solito respiro a fondo, senza prendere aria prima dell’apnea. ed ho mantenuto una calma meravigliosa, nessun battito accelerato, nessun occhio difettoso, finchè una delle persone che più e meglio mi abbiano mai seguito, capito e conosciuto in tutta la mia vita, abbassando un poco la voce perchè risultasse una cosa più seria di un arrivederci, salutandomi mi ha detto ‘sii felice’.
e quelle due parole sono state un rimpiattino potentissimo, e quella persona continuava a guardarmi, come in attesa di una risposta, per vedere che effetto mi avrebbero fatto, e io l’ho guardata meglio e all’improvviso quel sorriso è diventato un ghigno, e ho capito che mi stava lanciando una sfida, una sfida potentissima.
‘sii felice’.
io l’ho guardata come si guarda chi sa tutto, ho sorriso sereno e ho risposto soltanto ‘speriamo’.
e un pochino ci spero davvero, di essere felice, anche se so che ad esserlo senza il mio sogno sarei un’assassino bugiardo.

un pochino ci spero davvero.


 

giovedì 13 giugno 2013




quanto tempo che non ti scrivo. non so perché mi sono ridotto a farlo solo adesso. forse perché per lungo tempo non ho sentito la necessità di raccontarmi intimamente a nessuno, perché io parto sempre da questa idea che nessuna delle persone che mi circonda mi capisca sul serio. l’idea che nessuna sappia di cosa parlo.
poi sono tornato. finalmente. con un milione di ricordi più o meno recenti in una valigia con sopra il mio nome, una valigia che tutti conoscono e mai nessuno apre.
sono venuto a casa tua. il tuo sorriso è rimbombato ovunque, contenuto dalle imponenti volte a stella. ho lasciato cadere la borsa per abbracciarti. quando tutti se ne sono andati io sono rimasto. hai messo della musica, e io distrattamente conquistato la ascoltavo, e prendevo nota perché sapevo che poi mi sarebbe servita, che valeva la pena ricordarla.
e si faceva tardi ma non era mai ora di andare via, ed avevamo sonno ma all’improvviso io non lo sentivo più un gran che, e avevo voglia e bisogno di raccontarti un sacco di cose di me con l’entusiasmo che mi contraddistingue ma all’improvviso tutto mi è sembrato così poco importante, perché qualunque cosa avessi detto in quel momento mi sarebbe sembrato di scarabocchiare su una parete che era perfetta così: bianca.
all’improvviso le parole sono diventate solo un suono, un sottofondo, perché quello che realmente riempiva la stanza era la Compagnia. il nostro modo di starci accanto, finalmente, fisicamente, senza neanche toccarci, tu su un lato del divano e io sull’altro ma nella stessa stanza. e più vicini che mai.

l’aereo fa una virata brusca che mi scuote i pensieri, abbasso gli occhi e vedo mille luci illuminare la terra velenosa. ‘the big fight’, stars. quella canzone che all’improvviso cambia, si riempie di bassi, e da lounge jazz diventa r’n'b. ti si è accesa una lucina negli occhi quando mi hai fatto sentire il modo in cui si trasforma, ed io incantato mi sono chiesto se ti abbiano sempre entusiasmato le metamorfosi, se hai letto Ovidio e Kafka, se preferisci Marcella Bella o Rolling stones (e la risposta non è scontata), se hai mai preso in mano una rana, se da bambina avevi anche tu una di quelle statuette che cambiano colore con il tempo e se giocavi con il didò. e poi mi sono chiesto se per caso non siamo cambiati anche noi.
la sto ascoltando ancora. sto ascoltando la musica che metti la domenica sera. non so nemmeno se la scegli tu, ma è a te che mi fa pensare, perché è musica dalla superficie liscia con sotto un uragano. musica intima, balsamica, fastidiosa come una carezza. ho un nodo alla gola mentre penso che non so quando sarà la prossima volta che ti rivedrò, e che nel frattempo mi mancherai. ma non importa. perché ci sono persone che anche se le rivedi dopo mesi sembra sempre che siano passati cinque minuti. e tu sei una di quelle. tu sei sempre stato una di quelle.
perché tu sai di cosa parlo.
e lo hai sempre saputo.

e adesso che so che è a te che posso parlare di me, apro il computer, inizio a scrivere e di cosa ti parlo?
di te.
curioso, non trovi? ma in fondo, le cose davvero importanti sono le persone con cui possiamo parlarne.

p.s.:
questo documento è stato scritto due volte. la prima non è stato salvato. la seconda è stato riscritto a memoria, tale e quale, perché avevo bisogno che sapessi. ora sul desktop c’è un file che ha il tuo nome e cognome, e sullo sfondo c’è la mia foto, e adesso io prendo l’icona e la trascino accanto al cuore
.


mercoledì 12 giugno 2013



una scintilla. 

una scintilla vivida nel buio dei tuoi occhi,
 è bastata, a scatenare questo incendio gelido, 
questa quiete accesa.

si è consumata al buio, 
nella foschia feroce di chi non ha il coraggio di schiudersi 
e preferisce malcelarsi. 

lontano, 
dove gli scogli sono così alti e la sabbia così fine che 
a tratti cielo e terra sembrano ostili 
da non volersi neanche sfiorare, 

a tratti si perdonano 
e fanno l’amore lungo i bagnasciuga.


e ancora non si spegne. 
insolente, divampa.
 investe e abbatte tutto ciò che incontra. 
e non si estingue.

ho amato il tuo distratto riguardarmi, 
il mio afono scrutarti,
 il mio imperterrito appartenerti. 
i prolissi silenzi e le laconiche conversazioni.

 ho amato le mie lacrime, una ad una. 
i miei nodi al fazzoletto e quelli in gola.
 persino il mio dolore, ho amato.

se mi vuoi bene, per una volta, battiti.
l’orgoglio è la virtù dell’infelice.




martedì 11 giugno 2013



"è proprio vero che non si è mai soli. 
io solo non lo sono mai. 

ho accanto a me una nutrita compagnia di solitudini, 
tutti sedute qui, attorno a me, a guardare nel vuoto. 

sensazioni tristi e silenziose. 
punti di domanda senza frase.

qualcuna fuma,
 qualcun’altra canta,
 un’altra ancora stringe tra le mani un ricordo spinoso. 
una trema, 
l’altra se l’abbraccia. 
qualcuna dorme, 
più di una sogna.
qualcuna fissa un piatto vuoto.


gli ingredienti c’erano tutti:

la gioventù,
 l’avvenenza, 
la curiosità, 
l’entusiasmo, 
la sincerità, 
la serenità nonostante tutto, l
’energia ad ogni costo, 
una massiccia dose di felicità, 
e la complicità, 
dio, quella complicità che ci guidava ovunque senza mai farci perdere, 
chè ognuno era la bussola dell’altro.

ma alla fine è successo come quando, da bambino, giocando con le tempere, mettevo insieme i colori più belli: 
il giallo, 
il rosa, 
il rosso, 
il verde, 
il blu. 

uno li mischiava tutti, e cosa usciva? il marrone.



ho il cuore stanco. 
di tutto. 
di te. 

eppure non ti mando all’inferno. 

perché so che anche lì verrei a riprenderti.




lunedì 10 giugno 2013



bisogna insegnare ai bambini che l’amore non è quello che vedono. 
l’amore non è i ragazzi che si baciano in riva al mare, 
le fotografie insieme, 
ore ed ore al telefono, 
due mani che si tengono.

l’amore è pensarsi da troppo lontano, 
desiderare di essere insieme e non potere, 
un telefono che squilla per ore, 
mani vuote.
l’amore è non corrisposto.

questo bisogna insegnare ai bambini.
 così quando da grandi si baceranno in riva al mare, 
quando si scatteranno le fotografie, 
, quando sapranno sempre chi chiamare 
e passeranno le ore al telefono,
quando si terranno per mano,
quando finalmente si ameranno,

saranno felici il doppio.
e si sentiranno grandi.
 
 
 
*auguri piccolo ste_vn
 
 
 
 
 
 

domenica 9 giugno 2013



le persone sono sentimenti, 
i sentimenti non sono persone.

le persone sono fumo,
 si propagano nella stanza del nostro cuore 
e prendono le più svariate forme. 

possono diventare amore, 
amicizia, 
sesso, 
protezione, 
fiducia, 
conforto, 
lussuria, 
voluttà. 
possono diventare tante cose, 
anche tutte insieme.

ma i sentimenti non vanno battezzati. 
i sentimenti nascono randagi, n
on li puoi addomesticare, 
e non puoi dar loro altro nome che quello della persona che te li fa provare. 

un sentimento può chiamarsi 
Andrea, 
Federica, 
Emanuele, 
Morrissey, 

ma non potrà mai essere incastrato in una riduttiva/eccessiva definizione. 
non aderirà mai perfettamente.

perché i sentimenti sono gioielli da non incastonare, 
poesie da non scrivere. 
non sono acqua. 
non si adattano a nessun recipiente.  

hanno forma propria,
 immutabile, 
non malleabile.
 e per quanto tu possa cercare di comprimerli, non ce la farai.

prima o poi il mare esploderà dentro il bicchiere vuoto.

prima o poi quest’urlo esploderà dentro il tuo cuore muto
.
se l’amore non fosse così cieco,
 vedrebbe quanto è bruto.




sabato 8 giugno 2013



chi verrà dopo di te si prenderà il disordine che lascerai. 
i progetti aperti, 
i fogli sparsi, 
le cartoline mai inviate, 
i sogni a metà.
 berrà caffè, o lascerà che io gli insegni a farlo, 
e fumerà dopo l’amore. 

si specchierà vedendoti alle spalle, 
sapendo che sei un costante termine di paragone, 
mentre io avrò la sensazione di ripassare dal via, 
l’ennesimo punto di partenza del mio destino circolare.

chi verrà dopo di te mi farà sorridere composto e piangere nostalgico. 
nel buio indagherà l’eziologia dei miei silenzi.
 chi verrà dopo di te ti respirerà annusandomi. 

nel buio indagherà l’eziologia dei miei silenzi.
e avrà soltanto spine.

chi verrà dopo di te non sarà mai la benvenuta, 
non si sentirà mai gradita, 
non avrà mai tutta la luce dei miei occhi,
 e capterà le mie riserve, 
ogni grammo del peso dei miei piedi di piombo.

chi verrà dopo di te non ha volto, 
non ha nome, 
non è nemmeno un’idea, 
e il suo ruolo è vacante,
ma la verità è che nessuno verrà dopo di te

perchè
nessuno
mai
prenderà il tuo posto.