giovedì 4 luglio 2013



la società contemporanea è un ristorante, e si divide in due categorie: i clienti e quelli che servono ai tavoli. c’è gente che serve ai tavoli dieci volte di fila per (il gusto di?) meritarsi una sera da cliente. ci sono clienti che sono sempre stati clienti e saranno sempre clienti e nonostante tutto non saranno mai clienti affezionati. ci sono poi clienti che, dal nulla, si ritrovano dall’altra parte del menù, in piedi e col vassoio in mano. ma non ci è dato sperare in un cambio gestione. ed è un mondo adulto, attento e ben vestito, dove si sbaglia da professionisti. eppure nessuno mai è grande di fronte ad una delusione.
la coca cola è stata inventata nel 1886 ad Atlanta. è dolce, analcolica, frizzante, e oggi è anche scura. ma nella prima versione prodotta era verde. un po’ per via degli estratti dalle foglie di coca, un po’ perchè conteneva acidi. che contiene tuttora. ma che il caramello e i coloranti mascherano bene. agli IG Nobel del 2008 se non vado errato il premio per la chimica è andato a due gruppi di ricerca, uno statunitense e uno cinese, che hanno cercato di capire se la coca cola fosse uno spermicida. ottenendo, cosa singolare in chimica, risultati diametralmente opposti. ed entrambi scientificamente dimostrati.
durante l’estate, nelle paludi salmastre intorno alla baia di San Francisco, cresce la salicornia. in molti punti il color verde giada della pianta si mescola con l’arancio vivo della cuscuta creando immagini allegre, come se la natura stesse dando una festa. ma dietro tanta bellezza si nasconde un segreto: i filamenti della cuscuta sono parassiti. succhiano le sostanze nutrienti dalla salicornia. mi chiedo se nella mia vita non ci sia una situazione simile. c’è, perchè sento che c’è, qualcosa di apparentemente bello che nasconde uno squilibrio nello scambio di energia. e non è qualcosa di negativo – dopotutto la salicornia cresce in abbondanza nonostante questo parassita – , ma è importante, è estremamente importante, essere consapevoli di quello che succede dentro e fuori di noi. e io lo sono.
una manciata di ore fa ho pressato la mano sull’ultima striscia di scotch dell’ultimo scatolone di quello che spero sia l’ultimo trasloco della mia vita perchè sono stanca di andare e venire e tornare e fare e disfare e tutto quello che vorrei è invitare qualcuno in una ‘casa mia’ e chiedergli di restare ancora un po’ quando viene la sera. la mia stanza è vuota, la mia valigia è piena, tutto quello che ho a portata di mano è qualche abito, il computer, il telefono, pochi trucchi, un rossetto, una dispensa di libri di diritto – duemilasettecentoquarantatre pagine che ho voglia di studiare, una borsa e due paia di scarpe, e mi sento immensamente ricca, e come ogni volta che trasloco mi ritrovo a pensare che ho una marea di cose che in realtà non servono a niente.
parto alle sette.
sono le nove. sono per strada. è un sabato pigro ma pieno di cose da fare. l’aria non è abbastanza tiepida per andarsene in giro mezzi nudi, eppure io sono qui con un vestito di lino e una giacchina di cotone e i sandali alti in mano e le superga ai piedi e l’inseparabile chanel a tracolla e non ho freddo. quel poco di sole che c’è me lo riesco a gustare. me lo voglio godere, a costo di sopravvalutarlo. come le persone.
passa un aereo nel cielo, lo guardo e penso che magari mi ami. è una curiosa associazione il passaggio di un aereo nel cielo al fatto che qualcuno ci ami. l’amore è un po’ così, come un aereo: te lo ritrovi lì a graffiare il cielo, uno sfregio bianchissimo in mezzo all’azzurro, uno squarcio di purezza diversa in una distesa cerulea tutta uguale.
il problema è che più bianco è, più in fretta svanisce. il vero problema è la scia tossica che lascia.
chissà chi è stato il primo ad associare aerei e amore. sicuramente qualcuno che aveva nelle tasche abbastanza speranza da camminare a testa in su. forse qualcuno che di amore non ne aveva abbastanza da inseguirlo fino in capo al mondo, e allora gli aerei li guardava da sotto, e immaginava chi ci fosse dall’altra parte della fusoliera, nella pancia di quella larva alata che dentro sè covava passeggeri.
di tutto l’amore non ricambiato io soffro. di quello che non ho saputo ricambiare, più di quello che non mi è stato ricambiato. guardo la mia vita e vedo una mappa di strade a sensi unici. mai qualcuno che si venga incontro.
forse è giusto così, forse è tutto giusto. o forse… non lo so. quello che so è che non mi pento. non ci riesco. penso a te e la prima cosa che mi viene in mente è che odio il tuo odore. odio l’ansia che mi metti, la tua guida cieca, i tuoi disinteressi, la tua ironia spicciola, la tua voce mai rassicurante. i tuoi silenzi inadeguati come te, la tua incapacità di crearli. e questa volta non mi lascio fottere dal pensiero che uno che mi ami come te non lo troverò facilmente. non importa.
siamo qui, adesso, in piedi. e dobbiamo approfittarne, perchè non sappiamo, non sappiamo sapere, per quanto ancora potremo godere di questo malfamato lusso. siamo anima più che carne, e l’anima non sa cosa farsene dei soldi, delle fotografie, del salone del mobile, delle vostre cazzate. l’anima vuole anima. pretende il riflettore di uno sguardo puntato addosso. ed è una bestemmia, ogni volta, zittire l’istinto, narcotizzare la ragione, comportarci come ci hanno insegnato. perchè di tutti gli odori che non annusiamo, di tutti i colori che non riconosciamo, di tutte le idee che prematuramente ci muoiono in testa, di tutte le parole che ci si strozzano in gola e di tutte le carezze che trovano la loro tomba sotto le nostre mani e non sulla pelle di un altro, potremmo pentirci.
il vero paradosso della vita è che sei autore e non sai come va a finire.
mai.



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