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quando avevo dodici anni, una domenica, i miei mi portarono al mare.
era bello, turistico, poco distante dalla città.
c’era il mare, e
c’erano un sacco di ristoranti di pesce, ma a me piaceva l’odore del
porto. la puzza di legno bagnato e di pesce.
e c’era una piazzetta,
che dava sul mare, dove la domenica si mettevano i giostrai. ci
passavamo distrattamente, a volte ci fermavamo per sederci sulle
panchine. le giostre erano sempre accese. giravano, lente lente, con
luci, suoni e le sigle dei cartoni animati. quella domenica, però, le
guardai con più attenzione. e non so bene cosa mi prese, ma a un certo
punto, dopo un lungo silenzio, dissi: ‘papà, voglio andare sulle
giostre.’
‘non essere ridicolo’, mi disse, ‘sei grande’ e riprese a camminare.
‘no, no’, mi fermai, ‘dai’ insistei. ‘ti prego.’
con
un broncio scettico mi diede duemila lire, e io comprai il gettone.
scelsi le macchine. quelle peg perego fissate a una piattaforma rotonda
che gira. salii tranquillissimo.
la giostra cominciò a funzionare. il
mio sorriso si spalancò come i balconi che davano sul mare, non più una
timida finestra di paese ma un autentico varco di aria e di luce –
quanta luce avevo in bocca. provavo improvvisamente una gioia
incontenibile. la sfogai iniziando a schiamazzare, perché potessi
sentirla e goderne a piene mani.
era grottesco. i bambini più
piccoli, piazzati sulle giostre dai genitori desiderosi di sgranchirsi
le braccia, se ne stavano zitti e muti come bambole. e io, che per le
giostre ero troppo alto, mi divertivo da matti. urlavo, strepitavo,
ridevo, cantavo. la gente si fermava a guardarmi, ma non mi interessava.
non mi importava sapere cosa stessero pensando di me, e qualunque cosa
stessero pensando avevano torto.
la giostra si muoveva, e a un certo
punto era come se qualcosa si stesse muovendo anche dentro di me. la
consapevolezza che la mia vita sarebbe stata tutta così: una giostra.
sempre. che il mio sarebbe stato un costante, mai monotono, meraviglioso
andare, intorno a qualcosa di ben saldo, e che avrei trovato piaceri
immensi in cose piccolissime. ridicole.
quando il giro finì, nell’imbarazzo dei miei, li raggiunsi. ci
incamminammo di nuovo. loro perplessi per il mio atteggiamento
inspiegabile
– leggeva e scriveva a tre anni, è così adulto, come le
sarà venuto in mente?. ed io sorridente, sereno, con la soddisfazione di
chi ha capito qualcosa di fondamentale.
il codice del mio avvenire.
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