la società contemporanea è un ristorante, e si divide in due
categorie: i clienti e quelli che servono ai tavoli. c’è gente che serve
ai tavoli dieci volte di fila per (il gusto di?) meritarsi una sera da
cliente. ci sono clienti che sono sempre stati clienti e saranno sempre
clienti e nonostante tutto non saranno mai clienti affezionati. ci sono
poi clienti che, dal nulla, si ritrovano dall’altra parte del menù, in
piedi e col vassoio in mano. ma non ci è dato sperare in un cambio
gestione. ed è un mondo adulto, attento e ben vestito, dove si sbaglia
da professionisti. eppure nessuno mai è grande di fronte ad una
delusione.
la coca cola è stata inventata nel 1886 ad Atlanta. è dolce, analcolica,
frizzante, e oggi è anche scura. ma nella prima versione prodotta era
verde. un po’ per via degli estratti dalle foglie di coca, un po’ perchè
conteneva acidi. che contiene tuttora. ma che il caramello e i
coloranti mascherano bene. agli IG Nobel del 2008 se non vado errato il
premio per la chimica è andato a due gruppi di ricerca, uno statunitense
e uno cinese, che hanno cercato di capire se la coca cola fosse uno
spermicida. ottenendo, cosa singolare in chimica, risultati
diametralmente opposti. ed entrambi scientificamente dimostrati.
durante l’estate, nelle paludi salmastre intorno alla baia di San
Francisco, cresce la salicornia. in molti punti il color verde giada
della pianta si mescola con l’arancio vivo della cuscuta creando
immagini allegre, come se la natura stesse dando una festa. ma dietro
tanta bellezza si nasconde un segreto: i filamenti della cuscuta sono
parassiti. succhiano le sostanze nutrienti dalla salicornia. mi chiedo
se nella mia vita non ci sia una situazione simile. c’è, perchè sento
che c’è, qualcosa di apparentemente bello che nasconde uno squilibrio
nello scambio di energia. e non è qualcosa di negativo – dopotutto la
salicornia cresce in abbondanza nonostante questo parassita – , ma è
importante, è estremamente importante, essere consapevoli di quello che
succede dentro e fuori di noi. e io lo sono.
una manciata di ore fa ho pressato la mano sull’ultima striscia di
scotch dell’ultimo scatolone di quello che spero sia l’ultimo trasloco
della mia vita perchè sono stanca di andare e venire e tornare e fare e
disfare e tutto quello che vorrei è invitare qualcuno in una ‘casa mia’ e
chiedergli di restare ancora un po’ quando viene la sera. la mia stanza
è vuota, la mia valigia è piena, tutto quello che ho a portata di mano è
qualche abito, il computer, il telefono, pochi trucchi, un rossetto,
una dispensa di libri di diritto – duemilasettecentoquarantatre pagine
che ho voglia di studiare, una borsa e due paia di scarpe, e mi sento
immensamente ricca, e come ogni volta che trasloco mi ritrovo a pensare
che ho una marea di cose che in realtà non servono a niente.
parto alle sette.
sono le nove. sono per strada. è un sabato pigro ma pieno di cose da
fare. l’aria non è abbastanza tiepida per andarsene in giro mezzi nudi,
eppure io sono qui con un vestito di lino e una giacchina di cotone e i
sandali alti in mano e le superga ai piedi e l’inseparabile chanel a
tracolla e non ho freddo. quel poco di sole che c’è me lo riesco a
gustare. me lo voglio godere, a costo di sopravvalutarlo. come le
persone.
passa un aereo nel cielo, lo guardo e penso che magari mi ami. è una
curiosa associazione il passaggio di un aereo nel cielo al fatto che
qualcuno ci ami. l’amore è un po’ così, come un aereo: te lo ritrovi lì a
graffiare il cielo, uno sfregio bianchissimo in mezzo all’azzurro, uno
squarcio di purezza diversa in una distesa cerulea tutta uguale.
il problema è che più bianco è, più in fretta svanisce. il vero problema è la scia tossica che lascia.
chissà chi è stato il primo ad associare aerei e amore. sicuramente
qualcuno che aveva nelle tasche abbastanza speranza da camminare a testa
in su. forse qualcuno che di amore non ne aveva abbastanza da
inseguirlo fino in capo al mondo, e allora gli aerei li guardava da
sotto, e immaginava chi ci fosse dall’altra parte della fusoliera, nella
pancia di quella larva alata che dentro sè covava passeggeri.
di tutto l’amore non ricambiato io soffro. di quello che non ho
saputo ricambiare, più di quello che non mi è stato ricambiato. guardo
la mia vita e vedo una mappa di strade a sensi unici. mai qualcuno che
si venga incontro.
forse è giusto così, forse è tutto giusto. o forse… non lo so. quello
che so è che non mi pento. non ci riesco. penso a te e la prima cosa che
mi viene in mente è che odio il tuo odore. odio l’ansia che mi metti,
la tua guida cieca, i tuoi disinteressi, la tua ironia spicciola, la tua
voce mai rassicurante. i tuoi silenzi inadeguati come te, la tua
incapacità di crearli. e questa volta non mi lascio fottere dal pensiero
che uno che mi ami come te non lo troverò facilmente. non importa.
siamo qui, adesso, in piedi. e dobbiamo approfittarne, perchè non
sappiamo, non sappiamo sapere, per quanto ancora potremo godere di
questo malfamato lusso. siamo anima più che carne, e l’anima non sa cosa
farsene dei soldi, delle fotografie, del salone del mobile, delle
vostre cazzate. l’anima vuole anima. pretende il riflettore di uno
sguardo puntato addosso. ed è una bestemmia, ogni volta, zittire
l’istinto, narcotizzare la ragione, comportarci come ci hanno insegnato.
perchè di tutti gli odori che non annusiamo, di tutti i colori che non
riconosciamo, di tutte le idee che prematuramente ci muoiono in testa,
di tutte le parole che ci si strozzano in gola e di tutte le carezze che
trovano la loro tomba sotto le nostre mani e non sulla pelle di un
altro, potremmo pentirci.
il vero paradosso della vita è che sei autore e non sai come va a finire.
mai.